Friedrich Dürrenmatt «Considerazioni personali sui miei quadri e disegni» (1978)

Traduzione di Anna Ruchat © Edizioni Casagrande, Bellinzona (www.edizionicasagrande.com)

I miei disegni non sono lavori in margine all'opera letteraria, sono i campi di battaglia, disegnati e dipinti, dove si svolgono la mia lotta con la letteratura, le mie avventure, gli esperimenti e le sconfitte. Sono sempre stato un disegnatore. Tuttavia la Crocifissione, il mio primo dipinto, è l'unico che io possa accettare in quanto tale anche a posteriori, per la semplice ragione che non sono un artista illustrativo ma «drammaturgico». Io non mi occupo della bellezza del quadro ma della sua possibilità. Per portarvi un esempio di arte «grande»: il David di Michelangelo è un'opera astrusa, un colosso alto 5,5 metri, mentre Golia, secondo la Bibbia era alto soltanto 2,9 metri. Ma il David è una scultura importante perché Michelangelo lo trattiene «drammaturgicamente» nell'istante in cui diviene statua. È il momento in cui David per la prima volta si accorge di Golia e riflette sul modo in cui lo può sconfiggere. Dove devo lanciare la pietra? In quell'istante l'uomo rimane fermo nella pace assoluta della riflessione e dell'osservazione. Diventa drammaturgicamente scultura. Lo stesso discorso vale per il Mosè, rappresentato da Michelangelo nell'istante in cui si rende conto di quanto è già venuto a sapere da Jahvè, ovvero che il popolo sta danzando intorno al vitello d'oro. Ancora prevale lo stupore, ancora la rabbia si sta preparando, ancora tiene in mano le tavole della legge. Ma già nell'istante successivo si alzerà in piedi e le fracasserà al suolo e poi ordinerà di uccidere tremila uomini del suo popolo: questo significa pensare la scultura drammaturgicamente.

Da un punto di vista drammaturgico, perciò, la questione nelle mie crocifissioni si è posta così: come posso raffigurare oggi una crocifissione? La croce è divenuta un simbolo e per questo viene utilizzata anche come gioiello, ad esempio la croce tra i seni di una donna. L'idea che un tempo la croce sia stata strumento di martirio è andata perduta. Nella mia prima Crocifissione ho cercato di restituire alla croce il significato di croce, di renderla ancora quell'oggetto di scandalo che era un tempo. Nella seconda Crocifissione, la croce è sostituita da uno strumento di martirio ancora peggiore, la ruota. Non una, diverse persone sono appese alla ruota, ma una sola viene crocifissa, una donna gravida decapitata dal cui corpo sventrato penzola un bambino. Sul patibolo si arrampicano i topi. Nella terza Crocifissione i topi si arrampicano su un grasso ebreo crocifisso con le braccia amputate. Queste tavole non sono nate per «amore dell'orrendo», innumerevoli esseri umani sono morti di una morte incomparabilmente peggiore di quella di Gesù di Nazareth. Non il Dio crocifisso dovrebbe essere il nostro grande scandalo, ma l'uomo crocifisso; per un Dio infatti la morte - pur tremenda - non sarà mai così orribile come per un essere umano: il Dio risorgerà. Così oggi non è più la croce lo scandalo del Cristianesimo ma la risurrezione, e solo in questo senso si può capire la tavola Risurrezione, del 1978. Non è un Dio radioso quello che risorge senza testimoni, ma una mummia. Qui c'è un'analogia con il mio lavoro di drammaturgo: nella Meteora lo scandalo è dato dal fatto che un uomo muore continuamente e continuamente risorge. Proprio perché il miracolo avviene su di lui, lui non riesce a crederci.

Diverso è per gli Angeli: nel 1952 io, uno scrittore spiantato, mi feci prestare i soldi a destra e a sinistra e mi comprai una casa. Fu piuttosto difficile. Chi volete che prestasse dei soldi, allora, a uno scrittore. L'assicurazione «Pax», che deteneva la prima ipoteca, recise subito il contratto. Riuscimmo tuttavia ad entrare in casa. Chi poteva diede una mano. Fu allora che nacquero i miei due acquarelli Gli astronomi e Amanti annegati realizzati con una tecnica che ho poi utilizzato di nuovo soltanto nel 1978 (Il mondo degli Atlanti). Dipingevo di notte e sempre, intorno alle due, mi veniva a trovare un pipistrello, una graziosa bestiolina che chiamai Matilde. Ma una volta sono stato sleale. Ho chiuso la finestra e mi sono apprestato a catturare Matilde. Quando l'ebbi presa, la mostrai ai bambini e spiegai loro che Matilde era l'Angelo dei topi, poi la liberai. Fu molto offesa e non si fece mai più vedere. Da quel momento in poi il tema degli angeli non mi ha più abbandonato. Non tanto come presa in giro quanto come atto di spavalderia. Una vendetta contro Matilde. Disegnai con facilità innumerevoli angeli, anche un cherubino che deponeva le uova, tutte caricature. Il mio senso dell'umorismo mi portò fuori strada. Questo fattore - il mio fattore principale - non va mai sottovalutato; è presente ovunque. Solo via via ho capito che gli angeli sono di fatto esseri spaventosi, esseri rispetto ai quali Matilde è come una lucertola di fronte al tyrannosaurus rex. La cosa cominciò a interessarmi da un punto di vista drammaturgico, intendo dire il problema di come rappresentare oggi un angelo, visto che anche nell'arte non vi sono angeli capaci di farmi capire, o forse soltanto gli angeli che lottano e colpiscono, gli angeli furiosi nell'Apocalisse di Dürer. Così ho tentato di rappresentare gli angeli da un punto di vista drammaturgico, i due Angeli della morte e l'Angelo, a cui sto lavorando da tempo: anche gli angeli hanno qualcosa di orrendo.

Quando Elisabeth Brock-Sulzer, in relazione ai miei disegni a penna scrive di una «precoce mezzatinta di Dürrenmatt» e quando in disegni successivi - ad esempio nei rapidi disegni dal vero con la penna a sfera - ha voluto vedere una «liberazione», io non posso condividere il suo parere. Quei disegni non sono drammaturgici ma convenzionali. Qualunque pittore potrebbe farli meglio. Si tratta di capricci, esercizi per le dita dal mio punto di vista, così come una volta per alcune settimane ho realizzato dei collage, oppure le caricature che faccio di tanto in tanto. La tecnica che sviluppo nei disegni a penna, rappresenta per me la linea continua del tempo dal punto di vista del disegno: in questo campo ho esperienza, qui si può individuare uno sviluppo. Personalmente preferisco dipingere. Ma dipingere mi porta via dal lavoro mentre i disegni nascono alla scrivania, naturalmente anche i disegni a inchiostro. Così la serie del Minotauro (1975) è stata realizzata rapidamente. Spesso ci lavoravo di primo mattino, dopo una notte tormentata dalla scrittura. A un disegno a penna lavoro invece normalmente per quindici giorni. Molti disegni li riprendo e li rielaboro in un secondo tempo. Sono intese in senso drammaturgico e non blasfemo anche le scene dei Papi: ritengo infatti sia piuttosto scandaloso che qualcuno pretenda di essere il sostituto di Cristo sulla terra, infallibile eccetera. Ricordo una discussione televisiva sul Vicario di Rolph Hochhuth1. Hochhuth fu apostrofato da un prete che gli chiese se non si vergognasse di ferire milioni di fedeli con la sua idea di «vicariato», milioni di persone che considerano il Papa un uomo santo. Bisognava chiedere al prete se non si vergognasse lui, del fatto che il Papa con la sua pretesa posizione, feriva coloro che non credevano in lui. Un Cristianesimo che non intenda se stesso come scandalo non ha più nessuna ragion d'essere. Il Papa è simbolo del potere teologico e quindi della prepotenza, della convinzione di essere in possesso della verità. Per questo di papi ne spuntano sempre tanti - religiosi e politici -, e per questo le discussioni tra loro non hanno mai fine: ogni volta una verità si oppone all'altra, finché l'ultimo Papa non cavalcherà sul mammut del suo potere nella notte glaciale dell'umanità e sparirà in essa.

Sui disegni per La costruzione della torre: da un punto di vista drammaturgico mi interessava rappresentare l'altezza della torre. La costruzione della torre di Babele è stata spesso rappresentata. Penso ai quadri di Brueghel. Ma per me la torre era sempre troppo piccola. Non era mai semplicemente la torre; sui miei disegni si vede chiaramente la curvatura della terra, in rapporto ad essa la torre sul primo disegno La costruzione della torre è alta circa novemila chilometri. La «nuvola» che si estende verso il basso: polvere cosmica che tocca la terra. Sullo sfondo il sole come appare quando spegniamo il campo delle linee rosse dell'idrogeno. Fin dall'infanzia, quando abitavamo in paese, mi interessavo di astronomia. Più tardi la fisica è entrata nel mio pensiero, e oggi mi diverte soprattutto uno dei suoi campi, la cosmologia. È qui che la modernità segue l'insegnamento dei presocratici. Così tutti i miei quadri sulla costruzione della torre dimostrano l'insensatezza dell'impresa, del voler costruire una torre che arrivi fino al cielo, e così l'assurdità di ogni agire umano in generale. La torre di Babele è il simbolo della tracotanza umana. La torre crolla e con essa tutta l'umanità. Rimarranno solo rovine: i disegni IV e V mostrano il crollo che coincide con la fine della vita terrestre. La stella che esplode in La costruzione della torre IV è una supernova. Quello che rimane è un puntino bianco, una stella di neutroni, una stella dallo spessore infinito. Ciò che si vede a quel punto sono galassie in stadi diversi del loro divenire e svanire e si intuiscono giganteschi «buchi neri», i quali accennano a stadi finali di stelle che a loro volta (forse) possono essere l'inizio di nuovi mondi.

Il motivo della fine del mondo è legato al motivo della morte: ogni uomo che muore sperimenta la fine del proprio mondo. Il fatto che - come nel teatro che scrivo - anche nei disegni il boia giochi un ruolo importante, non dovrebbe stupire: sarebbe invece strano se quell'elemento mancasse. L'essere umano nella nostra epoca ha assunto il ruolo della buona vecchia comare secca. L'essere umano in quanto boia non è più la comare morte, in questo senso mi illumina il pensiero di Schopenhauer secondo il quale la vita dell'individuo è paragonabile all'onda del mare: svanisce, ma nascono nuove onde. Non riesco a immaginare che un giorno «non sarò più». Posso immaginare che sarò «sempre» qualcuno. Sempre uno diverso. Una coscienza sempre nuova, e anch'io prima o poi sperimenterò la fine del mondo. Così la fine del mondo è di un'attualità che sempre si rinnova. A questo motivo ho dato forma sulla scena in Ritratto di un pianeta. Ho concepito il testo come un esercizio per gli attori, per dire il più possibile con il minimo degli strumenti drammatugici. Prima di scriverlo ho rappresentato il motivo con una tecnica mista (Ritratto di un pianeta II): la fotografia di un uomo che in ogni mano, la destra e la sinistra, tiene una testa comparve all'epoca della guerra del Vietnam su molti giornali illustrati. Sotto a sinistra c'è un'astronave incendiata, quella in cui persero la vita due astronauti americani. Il macellaio universale è una figura che apparteneva alla prima versione del dramma.

È così che il mio pensiero drammaturgico, quando scrivo, disegno o dipingo, si sforza ogni volta di trovare forme figurativamente sempre più definite. Per questo, cercando in direzione del motivo di Sisifo mi sono poi addentrato nel mito di Atlante. Il primo acquarello sul tema di Sisifo l'ho realizzato nel 1946, contemporaneamente al Pilato. Lasciai l'unversità e raccontai in giro che volevo diventare pittore. Sarebbe stato avventuroso indicare la scrittura come scopo della mia vita. Ho dipinto quei due studi direi quasi come alibi, per dimostrare ai miei compagni che facevo sul serio con la pittura. In quello stesso momento scrissi il racconto Pilato e L'immagine di Sisifo. Per quanto riguarda il Sisifo voglio aggiungere solamente che mi preoccupava soprattutto sapere cosa lo costringa a spingere ogni volta il masso sulla sommità del monte. Forse è la sua vendetta nei confronti degli dèi: mette a nudo l'ingiustizia del loro agire. Mentre nel Pilat non riuscivo a liberarmi dell'idea che Pilato avesse saputo fin dal primo istante che davanti a lui c'era Dio, e che fin dal primo istante si era convinto che quel Dio fosse venuto per ucciderlo. Atlante invece è una figura mitologica che solo oggi ridiventa rappresentabile, paradossalmente; perché un uomo che porta sulle spalle la volta celeste sembra contraddire la nostra immagine del mondo. Ma se noi proviamo a pensare lo stadio iniziale del mondo come una gigantesca sfera compatta delle dimensioni dell'orbita di Nettuno o come buco nero che poi porta all'esplosione; oppure come stadio finale di un mondo che crolla perché è diventato troppo pesante, emerge in noi di nuovo la visione di una sfera di una pesantezza spaventosa. In questa visione del mondo Atlante ridiventa mitologicamente possibile, al tempo stesso però è immagine dell'uomo che deve portare sulle spalle il - suo - mondo. Il fatto che contemporaneamente ad alcuni quadri su Atlante sia nata per il teatro La dilazione, non è casuale visto che anche la pièce racconta di due esseri umani nella situazione di Atlante: il primo cerca di portare il mondo, il secondo non lo vuole portare ma alla fine non può far altro che sobbarcarselo. Lo ammetto, la prima raffigurazione di Atlan­te risale al 1958, Il fallimento di Atlante. La cosa più importante in questa immagine della fine del mondo sono gli esseri umani. Portano dei cartelli con le scritte: «Atlante non deve fallire, Atlante non ha il diritto di fallire, Atlante non può fallire...». Colui che ha scritto «Atlante fallirà», è stato decapitato: la catastrofe prevedibile si verifica, peggio ancora: le catastrofi previste si verificano. Il fatto che un giorno tutto sarà vendicato si esprime nel disegno attraverso lo strano titolo: Le bare di vetro dei morti saranno i battenti. Detto in termini drammaturgici: si verifica la peggiore delle svolte possibili. Il fatto che io ogni volta rappresenti la peggiore delle svolte possibili, non ha a che fare con il pessimismo e nemmeno con un'idea fissa. La peggiore delle svolte possibili è ciò che si può rappresentare drammaturgicamente, poiché sulla scena si produce esattamente lo stesso meccanismo che in scultura fa del David una statua e che trasforma i miei quadri in quadri drammaturgici. Così accade ad esempio anche nella Catastrofe. Il quadro rappresenta qualcosa di più di un incidente ferroviario con relativa reazione a catena: in alto il sole si scontra proprio in quel momento con un altro corpo celeste. Sei minuti più tardi la terra non esisterà più. Anche qui la peggiore delle svolte possibili, il tentativo di rappresentare non una ma la catastrofe. L'ultima variazione sul tema dell'Atlante è una delle mie opere preferite. Il quadro nasce da un capriccio. Stavo appendendo due fogli del mio formato preferito per gli acquarelli, 71 x 100, uno accanto all'altro sulla parete del mio atelier. Volevo fare uno schizzo leggero. Era il 1965. Da allora non ho smesso di tornare a lavorare su quel quadro. Avrei dovuto saperlo. Non ho mai fatto uno schizzo per nessuno dei miei quadri. Il quadro viene riprodotto nello stato in cui si trovava il 10 giugno 1978. Si possono vedere degli Atlanti che giocano con i globi terrestri. Più pesante è il mondo e più piccolo sarà il suo stato finale. Gli Atlanti sullo sfondo si affannano dietro le loro sfere. Devo dire che qui ha avuto una sua importanza l'impressione lasciatami da un atterraggio notturno all'aeroporto di New York, poiché fu quella la prima volta che mi resi conto di quanto può essere infernale vivere su una terra stracolma di esseri umani.

Sui miei ritratti: sono stati lavori veloci, salvo i primi due. Sono felice che almeno in pittura mi sia riuscito il ritratto di Walter Mehring, visto che finora con la letteratura non sono stato capace di raffigurarlo. Questo poeta dalla lingua straordinariamente forte, in molte delle sue poesie tarde è sopravvissuto non a se stesso, ma a tutti noi. (...) Ho dipinto l'attore Leonard Steckel nel 1965 a memoria. Il ritratto di Varlin l'ho disegnato il 22 ottobre 1977. Fu l'ultimo giorno che trascorsi con Varlin. Abbiamo parlato di pittura. Varlin mi disse di considerare Matisse come il più grande pittore del nostro tempo. Disse: «La cosa triste in pittura è che siamo davanti alla tela pulita, prendiamo un pennello in mano, ed ecco che abbiamo imbrattato la tela». Poi mi ritrasse più volte e più volte cancellò il ritratto. Infine uno lo ritenne buono e me lo regalò, dopo di che disse che voleva dormire e che io avrei dovuto disegnarlo. Quando si svegliò volle vedere il disegno. Mi chiese se quello fosse davvero il suo aspetto. Io non risposi. E Varlin disse: allora non c'è più molto tempo. Il 30 ottobre è morto. Il Ritratto di un ristoratore rappresenta il mio amico Hans Liechti, oste e collezionista di quadri originario di Zäziwil, un villaggio che dista tre quarti d'ora a piedi da quello dove sono nato io. Come me anche lui è finito a Neuchâtel. Dopo le ore dedicate alla scrittura spesso siedo fino a notte fonda da lui, gli racconto di quello che scrivo e disegno, di quello che si potrebbe disegnare. Non so se senza di lui avrei continuato a disegnare e a scrivere. Il suo entusiasmo per la pittura ha su di me un effetto produttivo. Il ritratto gliel'ho fatto una domenica pomeriggio. Lui aveva cucinato, la sua osteria sul mezzogiorno era stracolma, in più erano arrivati dei parenti e la sera, nel salone al piano di sopra aveva un banchetto. Giunse al mio atelier in abito da lavoro, per riposarsi. Dopo meno di un'ora mi lasciò per tornare ai fornelli e io terminai il quadro. Alle dieci di sera lo chiamai, gli dissi che doveva venire. Venne, sempre in abito da lavoro, e mi disse di essere soddisfatto.

Anche i miei ultimi disegni a penna sono dei ritratti: Il Dio adirato - chi mai non capisce la sua ira? (ho terminato quel disegno a penna da Liechti con un coltello da cucina). Mazdak è stato il fondatore di una setta comunista. Circa 530 anni dopo Cristo, tremila suoi sostenitori furono impalati a testa in giù nel terreno, e così la loro idea è stata rappresentata. Si può uccidere un uomo ma l'idea non cessa di vivere. Il bambino che Ofelia, la lebbrosa e la pazza, mette al mondo, non sarà né lebbroso né pazzo. Gli avvoltoi evirano il cosacco legato sul cavallo. Lui continua a vivere nelle poesie. Crono che evira Urano: solo così è stato possibile che il tempo cominciasse a regnare; la rappresentazione mitologica del big bang.

Con i Labirinti accolgo un motivo che da sempre mi ha affascinato anche nella scrittura. L'ho utilizzato per la prima volta nel racconto La città e ora lo uso nel racconto La guerra invernale nel Tibet. Del labirinto fa parte il Minotauro. Il Minotauro è un mostro e in quanto tale è l'immagine dell'individuo, del singolo. L'individuo se ne sta solo di fronte a un mondo che per lui è incomprensibile. Il labirinto è il mondo così come lo vede il Minotauro. Le tavole sul Minotauro (1975) mostrano anche come questo essere sia privo dell'esperienza dell'altro, del tu. È in grado soltanto di violentare e di uccidere. Non muore per mano di Teseo (come nella serie del 1984/85), crepa come il bestiame. Teseo non è in grado di rintracciarlo. L'uccisione del Minotauro è una leggenda. Dalla figura del Minotauro è nata, per associazione, la tavola Il toro universale, con una tecnica un po' diversa perché la carta non ne permetteva un'altra. Il toro universale è il simbolo di quel mostro omicida che noi chiamiamo «storia universale». La tavola I due animali rappresenta una parafrasi del manicheismo che oggi è ritornato in auge, una parafrasi dell'idea per cui la storia universale è una lotta tra due principi, uno buono e uno cattivo. I due sauri, che si mordono reciprocamente sullo sfondo, sono entrambi ottusi.

Naturalmente ci sono anche tavole non drammaturgiche, associazioni con motivi letterari come ad esempio Fuga I e Fuga II, cui ho dato forma un tempo nel Tunnel e nella Trappola. Non ho mai imparato a disegnare o a dipingere. Ancora adesso non so come si dipinga un quadro a olio. L'unica persona cui abbia chiesto: «Come si dipinge a olio?» è stata Anna Keel. E lei mi ha risposto: «Usa il petrolio». I quadri a olio li ho dipinti tutti nel 1966. Il fatto che anche i miei quadri sulle banche siano dipinti con olio e petrolio non costituisce una critica al sistema bancario svizzero. Al contrario, la fine dignitosa che concedo loro (L'ultima assemblea generale della Banca federale) dovrebbe aumentare le mie opportunità di credito presso le nostre banche, così spero, in particolare ora che ne ho bisogno più che mai, visto che per la critica - come leggo sul «Brückenbauer» - non esisto più dal punto di vista letterario. Da allora però ho ricominciato a dipingere con gli acquarelli. Proprio i miei quadri dedicati alle banche mettono in evidenza che le ragioni del mio disegnare e dipingere non si fondano soltanto su riflessioni di tipo drammaturgico; i miei quadri sulle banche sono l'eco della mia commedia Frank V, dramma lirico su una banca privata. Un'opera teatrale la cui realizzazione sulla scena non è in fondo mai riuscita. Ne ho una nuova edizione nel cassetto. Ma anche la Torre di Babele si rifà ad un'opera andata distrutta. Il disegno come azione sostitutiva.

Naturalmente ci sono anche altri punti di contatto tra la mia attività di scrittore e quella di disegnatore. Ogni opera di rappresentazione, qualunque mezzo si usi, prevede uno sfondo fatto di impressioni, immagini e pensieri. Questo sfondo oggi non è più generico; che si sia impegnati a sinistra, cattolici o le due cose insieme. Lo scrittore di oggi, ma anche il pittore, cerca un'ideologia, qualcosa di valido in generale. Mi sono sempre rifiutato di lasciarmi ricondurre a un comune denominatore. Per questo, necessariamente, sono comprensibile solo a pochi. Non è facile intuire quali sono le premesse del mio lavoro letterario, nonché dei miei quadri, premesse che sono nel mio pensiero, che sostanzialmente è un pensiero di tipo filosofico, e nella mia ironia, in se soggettiva. Per questo si preferisce non prendermi sul serio, altrimenti bisogna entrare nel mio modo di pensare. Sono consapevolmente un solitario. Non appartengo all'avanguardia. Chi oggi appartiene all'avanguardia non fa che avanzare con il branco. Così anche le associazioni di cui i miei quadri sono composti sono il prodotto della mia personale avventura di pensiero e non di un generico metodo di pensiero. Non dipingo quadri surrealisti - il surrealismo è un'ideologia -, dipingo quadri che sono comprensibili per me: dipingo per me. Mi confronto con il mio tempo e al proprio tempo non ci si avvicina soltanto con la parola. Il pensiero per concetti, il metodo della matematica, la necessità dell'astrazione nel pensiero scientifico non sonorappresentabili astrattamente nell'arte figurativa. Non c'è niente di più astratto della formula. Essa è l'ultima astrazione possibile. E = mc2, per esempio. La matematica ha una capacità di astrazione che non è più evidente, che logora necessariamente l'evidenza. È impossibile rappresentare la teoria della relatività senza l'astrazione, a meno che non la si trasponga in una metafora sensibile. Le metafore sensibili tuttavia non sono forme geometriche o stereometriche, ben­sì miti, i nostri miti. Un Atlante possibile.

Forse i miei primi disegni sono influenzati da Bosch, i quadri grotteschi dell'inizio, prima ancora che diventassi scrittore. Ma io non cerco la simbologia che ha voluto trovare Bosch. Ciò che cerco, quando scrivo e quando disegno, sono immagini e metafore possibili nell'era della scienza, un'era cui è riuscito ciò che non è riuscito alla filosofia. Descrivere la realtà attraverso l'astrazione. Se ci servono quattro o «n» dimensioni, ne abbiamo bisogno perché i fatti della realtà non si possono descrivere altrimenti. Non abbiamo la possibilità di semplificare queste complicatissime relazioni e questi dati. La fisica nucleare non è rappresentabile per il popolo. La si può soltanto riscrivere. Per essere capita deve essere pensata. Non ci si può ritirare nella semplicità. Ciò che per sua natura non è evidente può eventualmente essere rappresentato con delle metafore. Per questo l'arte astratta - laddove funziona - nel migliore dei casi è poetica, bellezza delle linee. È pura forma e quindi pura estetica. Mai la pittura è stata più estetica di oggi. Il suo senso è solo presunto, non integrato. Qualificarla come «enunciato intellettuale» è un'assurdità.

Ripeto: non sono un pittore. Tecnicamente di­pin­­go come un bambino. Dipingo per la stessa ragio­­ne per cui scrivo: perché penso. La pittura inte­sa come arte di fare dei «bei quadri» non mi interessa, così come non mi interessa l'arte di fare del bel teatro. Non potrei essere un pittore di professione, per il semplice motivo che per la maggior parte del tempo non saprei cosa dipingere. Sono un dilettante del disegno. Da studente abitavo a Berna in una stanza che avevo affrescato personalmente. Sopra il letto c'era una crocifissione bizzarra, accanto ad essa scene dalla mia prima opera teatrale, mai pubblicata, di cui esiste ancora un disegno, uno dei miei primi. Così il mio disegnare e dipingere rappresentano un complemento dell'opera di scrittore - per tutto ciò che sono in grado di esprimere solo metaforicamente. Così tra le mie cose ce ne sono poche che possano dirsi puramente «illustrative». Anche quando scrivo non prendo le mosse da un problema ma da immagini, perché all'origine c'è sempre l'immagine, la situazione - il mondo.

1.         Il Vicario di Rolph Hochhuth (nato a Eschwege in Assia nel 1931), atto di accusa nei confronti della chiesa e in particolare di Pio xii, accusato di non essersi opposto alla politica antisemita, fu rappresentato per la prima volta a Berlino nel 1963 per la regia di Erwin Piscator. Il regista Costa Gavras l'ha recentemente ripreso nel suo film Amen (2002). (n.d.t.)

Informazioni complementari

Friedrich Dürrenmatt, Considerazioni personali sui miei quadri e disegni (PDF, 38 kB, 12.06.2009)Traduzione di Anna Ruchat
© Edizioni Casagrande, Bellinzona (www.edizionicasagrande.com)

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